C’è un tempo per delimitare il perimetro estetico di ogni opera artistica, per l’analisi dei contenuti, il rilievo dell’intreccio e dell’ingegneria che soprassiede al primo genere della nostra drammatica: la commedia. E c’è un tempo per guardare con il mirino il valore documentario, l’importanza sociale e la cornice antropologica, come in Biasi mio tena l’amante, ultima proposta teatrale della Compagnia Nuova idea, di San Giovanni in Fiore, in questi giorni al Cinema Teatro Italia. Non che manchi in essa il primo, o la voglia di prenderlo in considerazione. Mi sembra che abbia più senso il secondo, per assecondare l’ambizione culturale – perché di questo si tratta – di chi l’ha pensata e scritta, in linea con la sua opera pluriennale, che sta diventando imponente e importante, per delineare l’identità e la memoria locale.
Due gli elementi su cui riflettere: la forza comica dell’ordito, con alcune battute intelligenti e costruite davvero con grazia e cognizione di causa, per i tanti riflessi aperti sulla contemporaneità, non solo strettamente locale: la difficoltà dei piccoli centri soffocati dalla logica della globalizzazione, in riferimento all’artigianato e al commercio; la distanza siderale con i giovani e i loro linguaggi postmoderni ormai sofisticati, rappresentanti assai bene nella mimica e nell’azione, nelle parole e nelle cose non dette, se non rimaste quasi in silenzio sulle labbra e sugli occhi di Piero (in forma di dissenso e ribellione), interpretato da Giuseppe Audia, molto interessante; il cambiamento dei costumi, nella tessera che traccia, dopo la morte della moglie – in scena in fotografia, ricordando Mastroianni di Sostiene Pereira tratto dal capolavoro omonimo di Antonio Tabucchi – le nuove nozze di Gigino Rotella, il protagonista, con Margherita.
E a proposito di protagonisti, la coppia in scena, e sodali, sin dai primordi, della Nuova idea, occorre un discorso a parte. Salvatore Audia (Gigino), catalizzatore e mattatore, e Barbara Marrella (Margherita). Nella desertificazione generale che sembra permeare forse il pianeta, nella mistica ossessiva sul Sud e il primato nella formazione della civiltà, non più suffragato dai fatti, se vogliamo essere onesti, meritano una menzione particolare. Chi pensa di essere depositari del sapere, chi pensa, con piglio elitaristico e fallacemente aristocratico, a dividere la cultura tra cose degne del canone e le cose ascribili a estemporanei rumores silani in salsa natalizia, o a macchie fockloristiche, non sarà d’accordo e sarà incline a pensare, in questo senso, all’incenso buonista verso tutti di Vincenzo Mollica. Ma fa poco testo. E però non si può non riconoscere lo sforzo culturale della mente del testo, quell’ambizione percepita nella tonalità del dialogato sempre sospinto di fermare valori, dialetto in estinzione (un patrimonio importante da studiare, non da conservare, che è poco), abitudini, preziosità di una Comunità contadina che sta perdendo le sue originalità (e la sua anima vera, avrebbe detto probabilmente Pierpaolo Pasolini,) portate via nel vortice del crollo demografico e dietro la fuga di pezzi o famiglie intere.
Ben articolato e appropriato l’uso di una miriade di tessere dialettali, rarefatte e preziose, come il volto di certe donne anziane presenti in sala, che osservavo come annuissero, tra risate e un’aria di forte nostalgia e di rabbia, quasi a dire che nel flusso del progresso non bisognava dimenticare le nostre cose, la nostra quotidianità (della terra, dei lavori, dei rapporti umani, della prossimità e della solidarietà del pianerottolo di casa, dell’umanità viva e primordiale), considerandole cose vecchie di cui vergognarsi. Mi pare questo l’anelito energico che si muove dietro al percorso artistico di Salvatore Audia, accompagnato da Barbara Marrella. Un percorso che va sostenuto e incoraggiato, prima che diventiamo del tutto ibridi e senza senso, ingoiati nella rete alla ricerca di non so che neanche che cosa vogliamo fare nel presente e da grandi, nel futuro.
E poi c’è l’altra linea, quella dei chiaroscuri e del gioco delle parti e delle ambiguità portate avanti in soliloqui e dialoghi dall’avanguardia della Compagnia. Il già menzionato Piero, Pietro il postino (Giuseppe Caputo, strategico nell’orchestra generale del cambiamento degli umori, abbrivio e “assistman”), quasi consapevole di portarsi appresso quegli arrivi e quelle scampanellate immediatamente riconoscibili degli storici postini e delle grosse borse al seguito nel dedalo del centro storico); Carmelinu (Massimiliano Straface), che porta in scena su di sé, in passi veloci, il discorso sui luoghi comuni gratuiti e, per intuizione, sui personaggi della San Giovanni in Fiore estinta, che diventavano ostaggio dei frizzi e dei lazzi dei ragazzi, insieme alle cattiverie di certi adulti – una specie di teatro all’aperto se si guarda alla parte construens, a forma di bullismo ante litteram, per la parte destruens; Padre Cristoforo (Luigi Congi), con l’aria di chi ha il pacco incendiario e la bomba comica da lanciare, non alla stregua delle caramelle d’un tempo elargite da Padre Daniele, dopo la messa, sotto l’abito; la prof.ssa Erica Di Leo (Antonella Romano), molto brava a far diventare un corpo concreto, un topos che cammina la puzza sotto il naso e la pruderie della città verso la provincia e, soprattutto, ad alimentare l’ira, tenuta stretta nei monologhi interiori, nelle scorribande furiose e nelle minacce muliebri volutamente triviali da Costanza ’a servacia (Maria Teresa Caputo), sul conto della quale, per quella fortissima abilità a somatizzare e confezionare mille espressioni nel giro di pochi tratti, resta da capire se finga o no, se scherzi o faccia sul serio, se rida o pianga, un intercalare naturale congeniale per commedie a soggetto o improvvise. Potrebbe improvvisare, per il brio e i fiumi di motti in memoria, per ore, su un canovaccio, fino a fare un salto nel Seicento e a consegnare le chiavi, nel secolo successivo, alla commedia di carattere.
Poche impressioni, prima che le gesta e lo sforzo di chi sale su un palco e ci mette la faccia diventino antologia, facendo ridere pensieri, teste e comportamenti diventati troppo rigidi, omologati e imprigionati nel vissuto quotidiano.
Giovani Iaquinta