Crotone,
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Tutti colpevoli per la morte di Dodò Gabriele

“Dolce amore della mamma, oggi sono sette lunghi anni che non ci sei più.
Il mio cuore sanguina dal 25 giugno 2009, fino ad oggi non ho pace.
Amore mio, tu sai il dolore e la sofferenza che c’è in me.
Nessuno può capire, la tua assenza.
Stammi vicino, non abbandonarmi, ho bisogno di te.
Per continuare a vivere per non morire.
La tua mamma Francesca”.
Voglio partire da queste parole di mamma. Parole dalle quali sgorga immenso dolore. Parole che rimandano alla sofferenza più atroce che una mamma, un genitore può essere costretto a vivere. Sono passati sette anni da quando il cuore di Dodò Gabriele ha smesso di battere, fisicamente. Dopo ottantasette giorni senza mai riprendere conoscenza, con mamma e papà ogni giorno al suo fianco in quella stanza di ospedale di Catanzaro. Lì Dodò ci è arrivato la sera del 25 giugno 2009, quando i pallettoni di un fucile a canne mozze lo colpirono alla testa. La giustizia terrena ha detto che ad uccidere Dodò sono stati Andrea Tornicchio e Vincenzo Dattolo, entrambi condannati all’ergastolo. Loro hanno sparato quella sera, loro hanno cagionato la morte di Domenico Gabriele e Gabriele Marrazzo, il loro vero obiettivo. Loro hanno ferito altre sette persone. Ma chi ha ucciso Dodò? Provo a raccontare quello che Giovanni Gabriele ripete ogni volta ai ragazzi che incontra in tutta Italia. “Se gli imprenditori che hanno pagato il pizzo avessero denunciato le estorsioni, mio figlio sarebbe ancora vivo”. Già, se avessero denunciato, se avessero fatto il loro dovere di cittadini, Dodò sarebbe ancora vivo. Ma Dodò sarebbe ancora vivo se anche noi avessimo fatto il nostro dovere di cittadini ogni giorno. Se non ci fossimo girati dall’altra parte, se fossimo stati insieme per fare fronte comune contro la ‘ndrangheta che é negli altri e quella che é in noi. Se avessimo insegnato ai nostri figli che fare il proprio dovere di cittadino è la cosa più normale e migliore per tutti. E se avessimo preteso lo stesso rigore dalle istituzioni. Noi, tutti, dobbiamo sentirci in qualche modo responsabili della morte di Dodò ed eternamente in debito verso i suoi genitori Francesca e Giovanni. Perché non siamo stati in grado di difendere il loro cucciolo, di proteggerlo dalla violenza e dalla barbarie umana. Non siamo stati e non siamo ancora in grado di dare una società migliore ai nostri bambini. I nostri modi, le nostre idee, il nostro “tanto non ci appartiene”, il nostro “é meglio non avere guai” hanno ucciso Dodò. Su quel campo di calcetto c’era Dodò Gabriele, ma poteva esserci il figlio di chiunque di noi. La cosa non può non appartenerci. Siamo ancora in tempo per regalare a chi verrà dopo di noi una società e un luogo migliore in cui vivere, ma bisogna essere cittadini e non sudditi. Fare fronte comune, non accettare i compromessi e i ricatti della politica corrotta dalla ‘ndrangheta e dalla bramosia di fare soldi. Dovremmo, ogni giorno della nostra vita, avere in mente anche solo per un attimo l’immenso dolore di Francesca e di Giovanni. Pensare a quello che provano e a come riescono, nonostante tutto, a dare amore, affetto e consigli ai nostri ragazzi, ai ragazzi di tutta Italia. Nessuno di noi può ritenersi fuori da questa battaglia di resistenza civile, semplicemente perché tutto ciò che accade per forza di cose deve appartenerci. Immaginate la ‘ndrangheta, in tutte le sue sfaccettature (violenza, corruzione, politica, insospettabili professionisti, forze dell’ordine e magistratura corrotte, massoneria deviata) come un parassita che si attacca ad una pianta e ne succhia la linfa fino a farla morire. Ecco, noi siamo la pianta e abbiamo questo bruttissimo parassita che succhia la vita nostra e dei nostri figli, dei nostri nipoti, affamando il territorio e la gente che lo abita. Dovrebbe bastare questo per fare in modo che tutti i sindaci si costituiscano parte civile in tutti i processi di ‘ndrangheta e di corruzione, “perché voi affamate la mia gente e dovete risarcirci di tutto quello che state rubando”.