Il 6 settembre 1993 è una data che i crotonesi non potranno mai dimenticare; è la data in cui la rabbia degli operai dell’Enichem per la perdita del lavoro è andata in mondovisione. Il fosforo incendiato, la sassaiola sulle forze dell’ordine e sui vigili del fuoco, strade e ferrovia bloccate: una intera città in rivolta. Una rivolta che doveva servire per salvare centinaia di posti di lavoro, ma che è finita per diventare il canto del cigno non solo del lavoro, ma anche della dignità di una città che da quel giorno è piegata su se stessa. In compenso su quella rabbia, su quella rivolta, su quei fuochi qualcuno ci ha costruito una carriera politica e altri una carriera sindacale. Gli operai e le loro famiglie a morire di fame, pochi furbetti della politica sistemati qua e là da Eni e dalle forze politiche accondiscendenti. Da quel giorno Eni di fatto è diventata anche “padrona” di Crotone con professionisti al suo servizio e servizi per città praticamente zero. Basta pensare anche solo a quanto costa il metano dalle nostre parti. Ma Eni ha anche vinto tanti processi per inquinamento ambientale a Crotone, ma a Milano ha perso, anche se condannata solo a 52 milioni di euro di risarcimento, Sentenza non impugnata dal Ministero dell’Ambiente e non si capisce perché visto che il pm aveva chiesto un risarcimento danni per la città di Crotone di 1 miliardo e 100 milioni di euro, ma di questo non è importato a nessuno.
Per non dimenticare e per rivivere quei giorni e quei momenti vi proponiamo di seguito la cronaca di quel giorno fatta da Pantaleone Sergi su La Repubblica del 6 settembre e il fondo di Nicola Tranfaglia del 14 settembre.
LA RIVOLTA DEGLI OPERAI ROGHI E MOLOTOV A CROTONE
“CROTONE – Operai in rivolta all’ Enichem contro la cassa integrazione. Arrivano gli incidenti, incendi dentro e fuori la fabbrica da cui sale una nube tossica allarmante, bottiglie incendiarie contro le forze dell’ ordine, auto in fiamme, operai intossicati. Incidenti attesi, perché annunciati, perché si sapeva che la crisi stava minando l’ordine pubblico. La tensione tra gli operai dell’Enichem era alle stelle infatti da giorni ed è esplosa ieri sera quando da Roma i sindacati hanno comunicato il fallimento di tutte le trattative con l’ Eni: l’azienda ha confermato la cassa integrazione per 333 dipendenti dello stabilimento di Crotone ormai in via di smantellamento, nonostante le garanzie del “business plan” del 1990 che, pur con la chiusura del fornofosforo e del reparto fertilizzanti, non prevedeva di intaccare i livelli occupazionali, avviando altre iniziative industriali. Invece, dopo il fallimento della Selenia che avrebbe dovuto assorbire la manodopera in uscita dall’Enichem e dopo i tanti tira e molla, è arrivata la doccia gelata di ieri sera. Ed è scoppiata così la rivolta. Numerosi operai che già occupavano da giorni la fabbrica (uno di loro ieri mattina alle sei è salito sulla canna fumaria, minacciando di buttarsi dall’altezza di 120 metri se non fosse stata revocata la cassa integrazione) hanno dapprima spaccato le vetrate dello stabilimento, quindi hanno dato fuoco anche ad impianti, e, subito dopo, come già in altre occasioni hanno bloccato la statale 106 jonica sulla quale hanno riversato e dato alle fiamme del fosforo contenuto in diversi bidoni a portata di mano proprio in previsione dell’annunciata protesta. Col passare delle ore l’allarme è cresciuto. Le forze dell’ordine in assetto antissommossa hanno fatto uso di lacrimogeni, mentre nella zona sono affluiti centinaia di curiosi e familiari di operai. Si teme che la protesta possa degenare da un momento all’altro. Anche per questo, sul posto, per coordinare le forze di polizia, è arrivato quasi subito il questore di Catanzaro, Gianni Carnevale. Fino a tarda notte ci sono stati momenti di estrema preoccupazione. Squadre di operai non hanno permesso un intervento dei vigili del fuoco arrivati per cercare di limitare i danni: sono stati bloccati da una fitta sassaiola. Polizia e carabinieri, invece, hanno provveduto a tenere a distanza gli automobilisti di passaggio (lo stabilimento dell’Enichem si trova nella zona industriale, proprio all’ingresso nord della città). Il timore dei vigili del fuoco del distaccamento di Crotone, comunque, è per la nube, molto tossica, provocata dalla combustione del fosforo buttato in gran quantità sulla sede stradale. Ma, a destare maggiore preoccupazione, per il timore di scoppi, erano diversi focolai di incendio appiccati tra gli impianti. Molti operai, infatti, si sono, barricati nello stabilimento, e per proteggersi da eventuali interventi di polizia e carabinieri usano grandi sacchi contenenti zeoliti e fosforo. Col passare dei minuti la situazione, secondo fonti di polizia, si presentava sempre più preoccupante. Soprattutto perché la nube, alzatasi per l’incendio del fosforo sulla strada, per effetto del vento, si spostava verso la città. Fino a tardi non c’erano feriti anche se alcune autoambulanze sono arrivate nei pressi dello stabilimento. Per tutto il giorno, mentre a Roma si trattava, qui a Crotone si erano vissuti momenti drammatici. Un operaio infatti era salito sulla canna fumaria dello stabilimento minacciando il suicidio. Michele Mattace, 38 anni, elettricista, padre di due figli, da tredici anni dipendente dell’azienda, è uno di quelli raggiunti dalla cassa integrazione. Mattace che ancora ieri notte, durante la rivolta dei suoi compagni di lavoro, si trovava sulla cominiera del forno-fosforo dove ha messo uno striscione molto eloquente: “Ho famiglia. Voglio lavoro”. E ai suoi compagni di lavoro aveva annunciato: “Non me ne andrò di qui fino a quando non sarà revocata la cassa integrazione”. Il gesto disperato di Mattace, rappresentava solo una spia della grave situazione occupazionale e sociale che stanno vivendo i dipendenti dello stabilimento crotonese”.
Pantaleone Sergi
I FUOCHI DI CROTONE
di Nicola Tranfaglia
LE IMMAGINI che ho visto scorrere negli ultimi giorni in televisione sulla notte di fuoco a Crotone e sugli incidenti avvenuti successivamente in quella che è stata a lungo la zona più industrializzata della Calabria hanno provocato in me sensazioni forti ma contraddittorie. Di angoscia e di scoramento per la rabbia e la disperazione che ho letto sui volti di tante donne e uomini che partecipavano agli scioperi e alle occupazioni e che mi parevano antiche, uguali a quelle viste tante volte negli anni ormai lontani che ho passato nel Mezzogiorno e che sembravano dire ancora una volta: se non c’ è niente da fare, è meglio distruggere anche quello che ci è servito per lavorare e per andare avanti. Ma anche sensazioni di stupore e, a mia volta, di rabbia per la maniera di procedere dei responsabili dell’ Enichem e del governo: possibile che gli uni e gli altri non si rendano conto che il risanamento dell’ economia meridionale, la fine dell’ assistenzialismo e delle fabbriche improduttive, di un sistema che ha connotato l’ ultimo ventennio con la complicità del ceto politico di governo, di quello di opposizione, delle classi dirigenti meridionali, non può realizzarsi attraverso interventi singoli e frammentari, diktat silenziosi che colpiscono qua e là regioni già caratterizzate da alte percentuali di disoccupazione e di sottoccupazione? E a ben pensarci il dramma del Mezzogiorno e della sua società malata sta proprio in questi due aspetti pur così distanti tra loro. Da una parte ci sono i meridionali, o meglio quelli tra loro che hanno acciuffato negli ultimi decenni un posto di lavoro nelle imprese a partecipazione statale e attraverso di esso sono usciti dall’ inferno di precarietà e di sottosviluppo che caratterizza una parte non piccola della società meridionale e non possono certo essere ritenuti responsabili degli errori che governi ed enti pubblici hanno fatto, soprattutto a partire dagli anni Settanta, creando nel Mezzogiorno aziende passive o non competitive e tenendole in piedi per decenni senza affrontare il problema della produttività e della capacità di ogni azienda, a maggior ragione se vive di denaro pubblico, a quadrare i bilanci. La loro reazione è incomprensibile se non si tiene conto del contesto occupazionale entro cui si svolge. In un’economia sana, anche se in crisi, ci sono sempre possibilità, magari assai scarse, di ritrovare un lavoro se si perde il proprio. In un’economia malata di assistenzialismo e di clientelismo, il rischio di uscire dal mercato del lavoro è mortale e la parola mobilità significa soltanto la fine delle speranze per il futuro. Non è un caso, o un frutto del destino, se l’incendio è scoppiato a Crotone e non in una delle tante città e paesi colpiti nelle scorse settimane da analoghi provvedimenti nel Nord della penisola. DALL’ ALTRA parte, peraltro, c’ è il primo governo della repubblica che si è posto con serietà, dopo i pochi tentativi del precedente, di affrontare una volta per tutte il risanamento dei conti dello Stato, ben sapendo che non ci sono alternative a questa amara medicina e correndo contro il tempo per evitare una bancarotta altrimenti inevitabile. E i dirigenti degli enti a prevalente partecipazione statale, tra i quali è l’Eni, non possono che seguirne l’ esempio a meno di accettare il fallimento e il crollo miserando che è toccato al carrozzone dell’ Efim. Se a questi termini del problema, che sono tremendi ma almeno chiari, si aggiungono le proteste che di fronte ai fatti di Crotone giungono dalla Lega che rivendica astrattamente eguali misure al Nord e al Sud e da quei difensori del Mezzogiorno che non si rendono conto della gravità della situazione nazionale e ragionano perciò come il vecchio e ormai superato meridionalismo vittimistico (al convegno della vecchia Dc a Ceppaloni qualcuno ha tirato fuori il turismo come infallibile toccasana!), si ha il quadro completo delle difficoltà di gestione della crisi da parte di chi ha la responsabilità della cosa pubblica. Come uscire allora dalla situazione in cui ci troviamo, evitando nuovi e maggiori incendi e corresponsabilizzando tutti, i meridionali come gli italiani del Centro e del Nord nell’ opera necessaria di risanamento del debito pubblico e di ristrutturazione dell’economia meridionale? Non ho in tasca, come è ovvio, nessuna particolare ricetta economica o politica per superare un momento così difficile e probabilmente destinato a durare ancora mesi o anni. Ma l’esperienza storica mi dice che se davvero governo ed enti di Stato hanno intrapreso la strada nuova che dovrà condurre alla fine della dipendenza politica ed economica del Mezzogiorno e all’ assunzione come obbiettivo strategico del rilancio dell’ industrializzazione delle regioni meridionali per portare anche lì la civiltà dell’ impresa e del lavoro, allora bisogna dirlo con estrema chiarezza, coinvolgere le popolazioni interessate e i loro rappresentanti politici e sindacali, farli partecipare in prima persona e con adeguate responsabilità e quella che può essere una svolta epocale per l’ intero paese.
PORRE fine alla dipendenza politica ed economica del Mezzogiorno significa che parlamento e governo considerino davvero, in tutte le prossime scelte, il dislivello tra Nord e Sud come una questione cruciale per l’instaurazione di un vero Stato di diritto nella penisola e per uno sviluppo armonico e solidale della nostra economia in grado di reggere la competizione internazionale in Europa e nel mondo. Non si dovrà insomma considerare il centro e il nord del paese, i più progrediti, come la zona privilegiata per la ristrutturazione e lo sviluppo dell’industria e il sud come il mercato protetto in cui riversare l’ assistenza statale ma nel quale non sono possibili né convenienti gli investimenti produttivi. Questo significa evidentemente che i meridionali dovranno cambiare mentalità (e nelle ultime amministrative se ne sono visti alcuni segni iniziali) ed eleggere parlamentari convinti di dover ragionare in una prospettiva nazionale e indisponibili allo scambio perverso che è avvenuto negli ultimi decenni tra risorse statali e voti. Il che pone a sua volta il problema di una lotta serrata delle istituzioni educative e del governo contro l’espandersi della cultura fondata su una concezione che al diritto sostituisce il privilegio e il favore, le amicizie e le raccomandazioni. Mi si risponderà che da quel che dico non può trattarsi di un processo né breve né facile a realizzarsi. Ma bisogna pur cominciare e siamo arrivati a un punto in cui le soluzioni provvisorie, gli espedienti momentanei non possono avere più corso. Perché il Sud non si incendi e non comunichi al paese la sensazione di rabbia e di angoscia che ho letto sui volti dei dimostranti di Crotone, esecutivo e parlamento devono rendersi conto concretamente che quella del Mezzogiorno è una questione nazionale e che il risanamento dell’Italia che si sta tentando non può accantonarla ma deve, al contrario, immergervisi, responsabilizzando senza distinzioni tutti gli italiani alla difficile ricostruzione che ci attende.