Dieci anni, sono passati dieci anni da quando i colpi di lupara hanno ferito a morte Domenico Dodò Gabriele.
Dieci anni, esattamente quanti ne aveva lui. Ne avrebbe compiuto 11 il 17 agosto, ma dal 25 giugno 2009 al 20 settembre Dodò è rimasto in un letto di ospedale a Catanzaro, senza mai riprendere conoscenza.
“Papà andiamo a giocare”, quante volte un genitore si è sentito dire queste parole dal proprio figlio. Quante volte una mamma ha baciato il suo bambino che andava a giocare con gli amichetti. Francesca Anastasio e Giovanni Gabriele il loro piccolo Dodò non lo hanno più potuto abbracciare, coccolare e vederlo crescere.
Io ricordo quel 25 giugno 2009. Ricordo la telefonata in serata. Ricordo dove ero, con chi ero e cosa stavo facendo. Perché il nostro cervello questo fa: blocca un’istantanea dei fatti che ci colpiscono di più e la immagazzina per sempre.
“Corri ai campetti di Margherita, hanno sparato e ci sono un sacco di morti”. Via di corsa. Ai campetti di Macrillò ci sono solo ambulanze vuote, poliziotti, carabinieri. Sangue a terra, sull’erbetta sintetica dei campi. “Fratini” colorati, di quelli che si usano per distinguere le squadre, sparsi in giro, buttati alla rinfusa.
Via di nuovo in macchina, direzione pronto soccorso ospedale di Crotone.
Tanta gente, ma grande silenzio. Nessuno parla, nessuno ha il coraggio di dire niente. Noto un ragazzo vestito da calcetto seduto in terra. Ha le spalle appoggiate al muro, la testa tra le ginocchia e coperta con entrambe le mani. Forse piange, forse sta solo pensando a cosa hanno visto i suoi occhi, a come faccia ad essere ancora vivo con tutto quello che è accaduto. C’è un signore di mezza età, anch’egli vestito di calcetto. Passeggia senza una meta, ha delle dita fasciate. Colpito di striscio da alcuni pallini della lupara. Un bimbo è stato trasferito d’urgenza a Catanzaro, non si conoscono le sue condizioni, ma è gravissimo.
Si chiama Domenico Gabriele, ha meno di 11 anni.
Passano i giorni. La città come al solito è divisa in due: quelli che stanno vivendo uno shock e quelli a cui non importa un bel niente.
Il 25 luglio 2009 organizziamo come giornalisti crotonesi un triangolare con le forze dell’ordine. Si deve giocare sullo stesso campo dove è stato ucciso Gabriele Marrazzo ed è stato ferito Dodò, che è ancora nel letto di ospedale di Catanzaro.
Vogliamo ribadire che i luoghi sono di tutti, che un campo di calcetto è un luogo di vita, di divertimento, non di morte.
Indossiamo le maglie con il numero 11 e la scritta Dodò sulle spalle, davanti “contro tutte le mafie”.
Alla sera, dopo le partite, un corteo silenzioso dal Tribunale al Duomo. Silenzio e fiaccole, il volto di Dodò in capo al piccolo corteo.
Già, piccolo corteo. Poca gente. Crotone non c’è. Ha paura oppure è complice, o solo menefreghista come al solito.
Siamo davvero pochi, ma determinati. Non è possibile colpire un bambino mentre insegue un pallone. Che barbarie, che atrocità. Pensate ai vostri figli e immaginateli come Dodò. Ora provate solo per un attimo a capire, se ci riusciamo, il dolore di Francesca e Giovanni. Terribile, atroce, impossibile anche solo a pensare, figuriamoci da sopportare realmente.
Il 20 settembre la città si commuove. Piange. Piange un bambino ucciso da quella mentalità di merda che è la ‘ndrangheta, il fare soldi facili sulle spalle della povera gente che non si ribella. Quel modo di vivere criminale che dovrebbe farci incazzare come bufali. Tutti. E invece ci trasforma in conigli pavidi che non hanno nemmeno il coraggio di alzare gli occhi, tirare su la testa e dire: “Basta”.
Le lacrime non bastano, come non basta l’indignazione ad orologeria e di facciata.
L’indignazione ha senso solo se si riesce a trovare la coesione di comunità pronta non solo a denunciare, ma a schivare e schifare chi vive di ‘ndrangheta. Chi vive sul sudore della povera gente. Chi non sa nemmeno parlare, ma può decidere vita o morte di una attività commerciale piuttosto che di una persona.
In un mondo normale non ci sarebbe dovuto essere spazio per questi esseri immondi. E invece comandano. E comandano ancora perché noi, tutti, non siamo capaci di porre un argine, di metterci insieme, tutti ancora, e di alzare una diga. Una diga che sia materiale e culturale.
Dodò è il figlio che noi tutti abbiamo perso per sempre e che noi tutti dobbiamo sentire come un macigno sulle nostre coscienze. Si chiamava Domenico Dodò Gabriele, ma poteva chiamarsi esattamente come tuo figlio. E nessuno vuole che il proprio figlio venga ucciso.
Scusaci Dodò, perché non siamo stati in grado di regalarti una città nella quale andare a giocare a calcetto non fosse un pericolo.
Scusateci Francesca e Giovanni, perché non siamo stati in grado di proteggere il vostro bimbo.
Abbiamo un solo modo per redimerci da questa grave colpa: lottare ogni giorno perché nessun altro Dodò possa subire tutto questo dolore.