DI NADINE SOLANO
ROMA – Vero: in tanti anni trascorsi a Roma, non sono mai andata a trovare Rino Gaetano. Tempo fa, conoscendo le mie (e le sue) origini, qualcuno a sorpresa mi ha portato davanti al portone di casa sua. Sulla Nomentana Nuova, civico 53. Ed è stata un’emozione. Però qualcosa mi ha sempre trattenuto dal compiere il passo successivo.
La tomba di Rino Gaetano si trova al Cimitero monumentale del Verano. Decisamente in buona compagnia: tanto per dirne una, a pochi passi c’è Alberto Sordi (“silenzio, er Marchese s’è addormito!”).
Comunque, ho deciso: oggi vado da Rino.Non dico che devo attraversare tutta Roma, ma da casa mia è una bella distanza. È un pomeriggio d’agosto, metto in moto lo scooter e parto.
Mentre guido, pare che qualcuno mi stia sparando un phon in faccia: l’aria bolle. Le strade sono praticamente vuote, mi sento Nanni Moretti in “Caro Diario”; la mitica scena in cui gira per una Roma deserta sulla sua Vespa, per intenderci.
Passano i minuti e mi sale la smania, voglio arrivare subito. Ma non è possibile, il tragitto è lungo. Quindi mi rassegno. E mentre cerco di convincermi che non fa poi così caldo, il mio cervello entra in modalità frullatore (tanto per cambiare). Penso a Rino. Provo a immaginare come mi sentirò quando sarò lì davanti. Canticchio mentalmente le strofe più celebri.
Penso alla brutta fine che ha fatto, all’alba di quel 2 giugno 1981: un frontale tra la sua macchina e un camion, proprio sulla Nomentana. Penso che forse avrebbe potuto salvarsi, ma più ospedali l’hanno respinto (almeno così si dice) perché privi di un’adeguata struttura di traumatologia cranica. Quando finalmente è stato ricoverato al Gemelli, era troppo tardi.
Penso a quella sua canzone, “La ballata di Renzo”, che in effetti suona come un’inquietante profezia: “La strada molto lunga/ S’andò al san Camillo/ E lì non lo vollero per l’orario./ La strada tutta scura/
S’andò al san Giovanni/ E lì non lo accettarono per lo sciopero”.
Lo vedo, con quel sorriso da folletto e le dita che giocano abilmente con le corde dell’ukulele. Mi autosuggestiono un po’, arrivo a credere che mi stia aspettando.
Ed eccomi qua, davanti all’entrata principale del Verano. Imponente, bellissima. Incute pure un po’ di timore, bisogna ammetterlo. Come del resto tutta la parte monumentale, con quei sepolcri illustri, la statue che sembrano fare da custodi, le centinaia di volti ritratti nelle foto in bianco e nero. Varchi quella soglia e ti ritrovi indietro di secoli.
Non c’è un’anima. O meglio, di anime ce ne sono pure troppe. Ma nessuna in grado di darmi indicazioni. Riquadro 119, cappella 5: questa la collocazione di Rino. Però non ho la più pallida idea di come arrivarci. Mappe, cartelli, qualcosa che aiuti a orientarsi? Zero. Eppure il Verano è enorme. Mannaggia.
Continuo a camminare, provando a indovinare. Sono passate da poco le 16.30, la chiusura è alle 19. Sì insomma, il tempo ce l’ho. Ma dove diamine devo andare? Sento dei rumori, chiari e distinti. Come se stessero spostando qualcosa di pesante. Oh, finalmente qualcuno! Saranno operai, mi dico. Posso chiedere a loro. Mi muovo in direzione dei rumori, arrivo a quella che – sono sicura – è l’origine, ma niente. Non c’è nessuno. Guardo bene: nessuno. Non mi soffermo troppo sulla questione, altrimenti mi angoscio. Ok, sono in un cimitero. Lascio l’interrogativo in sospeso e continuo a vagare.
Poco dopo, ecco arrivare un’auto bianca. E stavolta non ci sono dubbi, è lì ed è vera. A bordo c’è un giovane addetto alla sicurezza. Lo fermo, gli chiedo dove si trovi il riquadro 119. “Devi andare da Rino?”. Eh sì. “Se avessi preso l’ingresso Scalo San Lorenzo, saresti arrivata facilmente e in pochi minuti”. E io che ne so.
Prova a spiegarmi, dopo pochi secondi si blocca: “Dai, sali. Ti accompagno io”. Giovane sconosciuto, io ti voglio bene. Grazie, grazie, grazie. Salgo, l’aria condizionata è una carezza. Grazie, amico, Dio ti benedica.
Facciamo pochi metri e lo scenario muta completamente. I suggestivi sepolcri, le statue, le tombe all’inglese, gli alberi e le siepi lasciano il posto a palazzine di cemento. Orribili. Davvero, più brutte di così non avrebbero potuto farle. Su una di queste, si legge il numero 119 malamente disegnato col pennello.
Il mio angelo custode decide addirittura di accompagnarmi fino al loculo che custodisce il corpo – quel che ne resta – di Rino. Scendiamo dall’auto, lo seguo. Piano terra. C’è un muro alla mia destra che è stato trasformato in una sorta di lavagna: tante frasi dedicate a Rino scritte coi pennarelli, citazioni dei suoi brani. Poi una freccia. Ci siamo. Giriamo l’angolo, mi colpisce la penombra. Ma che tristezza.
Un tavolino al centro, coperto da una tovaglia rossa e un panno bianco, ospita un vaso di fiori e una foto di Rino. Poi un quaderno su cui lasciare la propria dedica. Sto fissando il tavolino, sento la voce del giovane addetto alla sicurezza: “Eccolo qua”. Mi giro e me lo trovo davanti. Ciao Rino.
Il giovane ci lascia soli. Io ti ringrazio ancora, eh.
Resto lì, sono tutta occhi. Guardo la sua foto: la zazzera, lo sguardo dolce, il sorriso monello. La maglia a righe. Il suo nome, la data di nascita e quella di morte, sono incisi in caratteri d’oro. Anche la lapide è tempestate di scritte, e questo decisamente non è il massimo. Avrebbero potuto evitare, dai.
I fiori sono tutti freschi; quelli dei suoi “vicini”, tutti finti. E non posso fare a meno di notarlo. Non ho più l’impressione che mi stesse aspettando, anzi mi sento – e del resto lo sono – una perfetta sconosciuta. Rino, siamo nati in riva allo stesso mare. Mi senti, mi vedi? Perché io sì.
Qualcuno, evidentemente dotato di maggiore senso civico, anziché scrivere sulla lapide ha attaccato un post it rosa a forma di cuore: “Ma dammi la mano/ e torna vicino/ può nascere un fiore nel nostro giardino/ che neanche l’inverno potrà mai gelare/ Può crescere un fiore/ da questo mio amore per te”.
Accipicchia, mi sta prendendo male. Un groviglio di sensazioni difficili da spiegare. E poi queste dannate zanzare che mi stanno massacrando. Faccio qualche passo, arrivo fino alle finestre dell’orribile palazzina in cui mi trovo; torno indietro, nuovamente fino a lui. Rino, ma come facevi a sapere le cose prima che accadessero? E perché il tuo tempo è stato così breve? Ma infinito.
Devo andare via, non riesco più a stare qua. La dedica non la lascio, c’è quel “ciao folletto!!” che parla per me. Poso gli occhi un’ultima volta sulla sua foto e sull’epitaffio: “… ma il cielo è sempre più blu”. Dici? Forse sì. Ma solo per chi ha il coraggio di volare alto. Mi accendo una sigaretta.