DI SILVANA MARRA
No, non è vero che questa terra ha pianto tutta insieme, non è vero che tutta vuole la verità. Ne ho sentiti di soggetti per strada e sul social tirare fuori il benaltrismo più subdolo e banale. Ne ho sentiti di individui che tiravano fuori l’Europa sorda e gli scafisti assassini. Sbrodolando il luogo comune inoppugnabile e buono per tutte le stagioni. Sfondando porte aperte con l’aria ostentatamente consapevole dell’idiota. Perché a sciorinare insulsaggini del genere comunque si fa finta di partecipare. E non v’è dubbio che qualche like su certe bacheche che sono cloache, arriva. Ed in quei giorni, i primi, quelli feroci dei ritrovamenti a ripetizione, c’era chi continuava a postare lasagne e video del più inconsistente narcisismo. Ovviamente, sempre dopo avere scritto il RIP di rito.
Non so quand’è che questo popolo è diventato marcio dentro, sono tante le cause di una società malata. Soprattutto, non so quando è diventato così acriticamente imbecille. Sì, saranno stati i trent’anni di tv berlusconiana, ma non basta: anche questo rischia di diventare un luogo comune. Sarà stato il social, che ha illuso tutti di essere in grado di avere un’opinione su ogni cosa. Ma nemmeno questo basta, perché sul social ci siamo tutti. C’è qualcosa di più sottile, di più insinuante: c’è l’illusione di un protagonismo che si crede possa piovere dall’alto, senza studio, documentazione, informazione. Senza una mente allenata al pensiero critico. Senza scelte che costino prezzi da pagare e privilegi cui rinunciare. Un bisogno inconsulto di partigianeria, che ci fa rinnegare persino il nostro vissuto. Perché se addirittura chi è madre, di fronte allo sterminio di tante creature, tira fuori Europa e scafisti, è il cancro dell’anima che si metastatizza nella nostra storia personale. E cosa più inquietante, è il processo d’identificazione con chi ha privilegi, prestigio e seguito che mai lambiranno le loro persone. È l’arrembaggio della coscienza, è il pesce grande che mangia il pesce piccolo. È la belluinità che si dà ragione sociale.
Scrivo, di questo lavoro di Vincenzo, con tutta la gioia che l’argomento consente. Perché, sforzandosi di prescinderne, si tratta di un testo scritto come andava scritto, senza autocompiacimenti e sbavature egotistiche. Una lettura in apnea, fino in fondo, in una boccata sola. Con quell’ansia di volerne ancora e ancora, per liberarsi dello strazio e con la speranza di trovare una parola, una sola, di consolazione.
Con l’impronta, la traccia, il graffio e la carezza di chi non saprebbe e non potrebbe fare altro che scrivere: questo è un lavoro che si fa bene solo se la scrittura è divorante, essenziale, originaria. Chi scrive davvero, chi è nato per questo, ogni volta si sente bene e male, pieno e vuoto. Adrenalina ed endorfina, up e down, ma dimensione esistenziale, mai disinvolta nell’approssimazione, mai sciatta, stentata nella scelta di ogni parola. Perché in un modo o nell’altro si raccontano sempre vite. E quante cadute, quanti inciampi, quante risalite, quanto dolore le nostre parole possono deprivare di quella dignità totale di cui imperfezione e sofferenza sono fatte.
Il martirio annunciato di esistenze che ancora continuano a bussare alla coscienza, questa volta ci ha travolti nell’urlo della non rassegnazione. Si è consumato in casa nostra, nello spreco di attimi beffardi e nell’ambiguità offensiva di chi avrebbe potuto salvarle. Ed il dolore dei giusti non si placa e non soprassiede, continua a denunciare ed a chiedere risposte che non arriveranno mai, nonostante si pretenda di averle date.
Le microstorie racchiuse in “Quale umanità’” sono la ballata senz’ accordi d’ un “Tutti morimmo a stento”, sono interrogativi sospesi, urlanti, eterni, inconciliabili con un sorriso che mai più recupereremo intatto. E se non avremo fatto due più due, se non avremo sintetizzato che la parte del più forte è sempre quella ingiusta, resteremo confinati negli scantinati della civiltà, ma soprattutto, nell’offesa estrema alla nostra sostanza di uomini. Erano sorelle, fratelli, figli, nipoti. Era il nostro stesso sangue che si è lasciato scorrere sull’altare della più cinica propaganda. Il resto è storia: una parata indegna di automi armati di cellulare a conferenze stampa grottesche, come documentato ovunque, anche fuori nazione. Il distacco più impassibile del contabile. Quelle creature affogate non erano che numeri, anche quello zero scritto su una minuscola bara bianca. Ma già non se ne parla più: l’imperativo è dimenticare bene e in fretta. Però quelle poche volte in cui si sente accennare a questa atrocità si parla della “strage di Cutro”, anche da parte del più fazioso degli individui perché, in questo tempo distopico, la semantica non è mai un’opinione. L’Autore denuncia senza accusare, lascia parlare le storie, le dinamiche torbide eppure chiarissime, le risposte mancate. E si piange, non si riesce a restare freddi di fronte ad una scrittura che è sangue. Si rivive lo stillicidio dei ritrovamenti, delle albe gelide e del vento impietoso. Di una creatura che ha toccato terra da viva ed è morta d’ipotermia per l’intempestività dei soccorsi. Di tentativi vani con le mani nude vestite solo del coraggio di un pescatore, e di un bambino che nemmeno un amore tanto grande ha potuto salvare. E noi siamo qui, confusi, mischiati, fra persone che vogliono ancora guardarsi allo specchio senza vergognarsi e belve ipocrite. Le prime leggeranno questo libro urgente e necessario, per le seconde, si spera in uno scatto di dignità. E se tutti insieme, col ricavato riusciremo a comprare anche un solo salvagente, avremo consolato il grido muto di un bimbo ucciso. Grazie Vincenzo, e grazie al racconto dolente e generoso di alcuni colleghi, senza del quale il mondo non avrebbe saputo e noi avremmo dimenticato ancora più in fretta. Questo testo, con le foto che contiene, consegna all’eternità della memoria ciò che questo mondo guasto ha voluto cancellare. Un libro resta, col dolore di chi l’ha scritto e con quello che ha saputo raccontare.