Di Silvana Marra
E via di linciaggio su Montesano. Inutile perché andava fatto prima. Inutile perché non c’era bisogno di una maglietta idiota per sapere chi fosse. Inutile perché non andava chiamato nella tv pubblica, al massimo in quella del suo compare al governo. Ed inutile pure perché la sua carriera ha, per lo più, dato pane ai denti guasti della banalità. Ma si sa che la gente si diverte con poco. Però il dato esilarante è l’indignazione, tutti feriti nel profondo e nessuno che ammetta di seguire la trasmissione in cui il misfatto è accaduto. Perché non fa chic o radicalchic ( mai termine fu più idiota, e se lo becca chiunque rida di fronte a 5G, complottisti, smascheratori di poteri forti e tutta la fauna connessa).
Almeno l’altra parte si diverte alle battute del Bagaglino e a quelle di Berlusconi, e si commuove, con fedeltà sempiterna, alla vicenda di lady D. E non basta, ne fa orgogliosa mostra. Ma niente, la colta sinistra che poi da un pezzo non è né l’una né l’altra, può mai guardare “Ballando con le stelle”? E via, rilassatevi un poco. Il costume va analizzato, scrutato, compreso e casomai criticato. Non vuol dire seguire, ma non vuol dire nemmeno vantarsi di non averlo visto, se poi dite “che schifo”. Perché magari schifo lo è, e pure parecchio, però via, può capitare e può anche incuriosire, a meno che alla vostra veneranda età, non abbiate inserito il parental control. Invece no, ci sono i puristi della “cultura”, di quelli che più un film è una palla, più godono a dire che sono gli altri a non capire. E purtroppo la retorica dell’appartenenza gioca un ruolo decisivo in questa forma, tutto sommato, di pretenziosa ingenuità. Prendiamo i Maneskin, sono diventati un fenomeno planetario. Vivaddio. Quattro ventenni energetici, puliti, di classe certa. Rock, non rock, musica scadente, niente di nuovo, il jazz quello sì, io non ascolto questa robaccia, e la canzone d’autore, e Mark Knoplfer e i Clash e via blaterando.
C’è una sorta d’invidia, una rabbia verso quattro creature che, di fronte a tanti che ci fanno vergognare, stanno portando in alto il nome di questo paese. Ma non vanno bene agli “intenditori”, sì quelli che vivono nella gabbia del dover dimostrare. E che non si capisce perché ne debbano parlare continuamente se li odiano tanto. Questi atteggiamenti, mi dispiace, anzi mi addolora, insistono maggiormente nella sedicente sinistra, perché gli altri sono abituati ad essere, giustamente, considerati ignoranti, imbalsamati nella vagheggiata veste patinata che l’immaginario scurrile della loro tradizione sollecita. Ovviamente, delineo la tipologia diffusa e mai il singolo. Ma dall’altra parte c’è l’ossessione dell’intellettualismo, di questo che non è un bambino interiore, ma uno stagionato Jep Gambardella che non si mischia al mondo che gli fa schifo. Siamo, cioè, in una ideologizzata “Miseria e nobiltà”: spariti, sommersi, inetti, rinnegati, che aprono la strada allo scempio di oggi ma stanno a cianciare di antichi fasti. La retorica della bandiera, dell’essere parte. Eppure quant’è bello non esserne e contare solo sui contenuti da realizzare. Ragazzini, nemmeno più tanto, che ad orecchio si esprimono come ai tempi d’oro, ma non sono mai stati operai e sarebbero ricoverati in ospedale dopo il primo giorno di “fabbrica”.
Né più né meno che la retorica di Predappio. Patetica come ogni nostalgia. Solo che mentre la prima ha una storia d’infamia, la seconda ha lo splendore abbagliante dell’anima popolare e delle menti raffinate dall’amore. Della storia più dolce, che parte da Cristo passando per ogni uomo che ha lottato perché fossimo tutti uguali. E allora bisogna testimoniarla, non sbandierarla. E crescere insieme al tempo, che purtroppo è cresciuto male. E cambiare, senza ambiguità e partigianerie, fazioni, torri d’avorio e retoriche. Una volta, ma ero giovane, avevo in casa intere pareti “alternative” di poster anziché di quadri, alcuni molto particolari. Ma c’erano il mio bravo Klimt con Munch e il Che, Calvino l’ineffabile, Camus e giù di lì. Erano i residui del mio fricchettonismo, forse perché arrivata da poco ero in terra “straniera” e le mie idee, per un problema altrui, venivano automaticamente assimilate a quelle della famiglia di cui ero venuta a far parte. Non era così e nemmeno chi avrebbe dovuto averne le coordinate, lo capiva.
Trenta o più anni fa avevo una casa manifesto. Adesso no, mi circondo di poche di cose, preziose, fragili, tenui, con le tracce e le ferite della loro storia. Una mia scenografia dell’anima. Di una bellezza che commuova me e quei pochi cui permetterò di entrare. Già, anche la selezione è conquista del tempo. Ora non desidero dimostrare più nulla e coltivo anche la fierezza di non piacere a qualcuno. Adesso gli anni sono passati e fare la fricchettona mi renderebbe patetica come indossare una vecchia minigonna. È il dono della maturità. Vorrei che lo comprendessimo tutti insieme, perché le cose non funzionano. E se i sistemi, il rampantismo e la comunicazione restano polverosamente gli stessi, il Che si staccherà da solo dalla parete.